Luciano Ponzi è lo 007 privato nipote del celebre Tom: “I capi d’azienda si sentono come mariti traditi. Lo stalking? Oggi si spia con i cellulari”
«Il lavoro che faccio ce l’avevo scritto nel destino. Perché porto addosso un cognome pesante… quasi come me», sorride Luciano Ponzi, professione investigatore privato. Un omone gentile, niente di più lontano dallo stereotipo disegnato da letteratura e fiction. Nipote di Tom Ponzi, cioè figlio di suo fratello (e socio) Vittorio, che nel 1958 si mette in proprio e apre un’agenzia a Brescia.
Da vent’anni Luciano segue le orme di chi l’ha preceduto, come un «vizio» di famiglia. Lanciata una seconda sede a Verona, sta per sbarcare a Milano. «Siamo su tutto il territorio nazionale e ci muoviamo spesso anche all’estero. Ho quaranta dipendenti».
Secondo il cliché dello 007 lei dovrebbe vivere una vita in incognito. Dove ha nascosto barba finta e occhiali scuri?
«Tranquilli: non ho un ufficio sgangherato in periferia, nel cassetto della scrivania non c’è una bottiglia di whisky e non fumo nemmeno il sigaro. Forse non ancora tutti sanno che la nostra è un’attività professionale regolata dalla legge. E per fortuna, aggiungo io, considerato chi c’è in giro…».
Cosa ha ereditato dallo «zio Tom»?
«Tom per me è un mito inimitabile e inavvicinabile, era il mio padrino. Ha portato alla luce alcuni segreti che hanno fatto la storia del nostro Paese, dalla cronaca nera alle nebbie della politica. Aveva una dote fondamentale, indispensabile per questo mestiere: l’intuito. Aveva tanti amici importanti, e altrettanti nemici. Ciò che non ha mai avuto, per assurdo, era la licenza… lassù, in alto, non hanno mai voluto dargliela».
Lei ha dovuto fare la gavetta?
«Ho iniziato da piccolissimo perché mio padre Vittorio mi portava al cinema a vedere i film di James Bond. Poi ha cominciato a portarmi in missione con lui. Ma durante gli appostamenti, di notte, mi addormentavo sui sedili posteriori della 127. Ricordo anche le lunghe attese fuori dalle cabine telefoniche, con in mano i sacchetti pieni di gettoni…».
Oggi invece ci sono smartphone e droni. Per pedinare qualcuno bisogna rivolgersi ancora all’investigatore privato?
«Infatti non ci chiamano quasi più mogli e mariti gelosi, l’infedeltà coniugale è una voce scivolata in fondo alla nostra casistica. Dopotutto adesso per scoprire le corna basta dare un’occhiata a Facebook o a Whatsapp. Da questo punto di vista sì, i social ci hanno tolto lavoro. Anche se, per restare nell’ambito della famiglia, la vita quotidiana ci dà nuovi spazi di manovra».
E quali, in particolare?
«Ci chiedono di svolgere ricerche sul passato delle badanti, soprattutto straniere, che si occupano degli anziani a rischio di truffe e raggiri. Oppure di seguire i ragazzi fuori casa, in discoteca fino all’alba, per scoprire se frequentano cattive compagnie o fanno uso di alcol e di droga. E capita di metterci alla ricerca di tante persone che, di punto in bianco, scompaiono».
Chiedono il vostro aiuto anche i manager?
«Tre quarti del nostro lavoro ormai lo facciamo per aziende e assicurazioni. Siamo noi a dare la caccia a furbetti e fannulloni».
Di lavoro ne avrete tanto…
«Contrariamente a quanto si possa immaginare e ai dati che circolano, l’assenteismo è più diffuso nel settore privato che nel pubblico. Il servizio è così richiesto dagli imprenditori che proponiamo loro un pacchetto ad hoc».
Fate lo sconto-fannullone? Pizzichi tre, paghi due?
«C’è una tariffa unica nazionale con una coppia di agenti che tiene sott’occhio il dipendente sospetto per il tempo necessario. Anche se l’ideale è sempre prevenire, indagando a priori sui curriculum e sulle esperienze di lavoro pregresse. Per evitare brutte sorprese dopo, quando la persona sbagliata è già dentro l’azienda».
Già, come si fa a beccare il furbetto in flagrante?
«Spesso è più semplice di quanto si possa immaginare: è incredibile quanto le persone possano avere la faccia tosta. La procedura standard prevede il pedinamento classico. Oppure si scava nella rete dei rapporti personali. Ma, ripeto, molto spesso è il sospettato a commettere passi falsi e a consegnarsi. Anche in questo caso, qualcuno usa i social network con troppa disinvoltura. Eufemismo: ne vediamo di tutti i colori».
Per esempio?
«La dipendente di banca con tanto di certificato di malattia che però la sera fa l’insegnante di balli latino-americani, per arrotondare. Oppure l’impiegato che in pubblico gira col gesso al braccio, ma poi nel giardino di casa taglia la legna per rivenderla in nero. E pensare che molti capi d’azienda, persino davanti a prove schiaccianti, come video e foto in luogo pubblico, non vogliono crederci».
Proprio come un marito o una moglie traditi?
«Esatto. Non sopportano che la persona su cui hanno investito tempo e denaro abbia tradito la loro fiducia in questo modo, si sentono presi in giro. Forse pensano alle famiglie che ci sono alle spalle di chi se ne approfitta. Ho conosciuto imprenditori che stanno male solo all’idea di lasciare a casa qualcuno. Ma per fortuna, spesso ci pensano i giudici a fare in modo che questo non accada…».
In che senso?
«Ho raccolto una collezione di sentenze che farebbero davvero ridere, se solo la questione non fosse così seria. Perché di frequente è il fannullone ad avere ragione nel corso del processo. Allontanare qualcuno, perfino per giusta causa, in Italia è complicato. L’ultima volta una toga (giovanissima, tra l’altro) ha ordinato di reintegrare un dipendente infedele nonostante ci fossero più di ottanta fotografie che lo ritraevano mentre svolgeva un secondo lavoro. Come potrà mai cambiare questo Paese?».
Deluso dal sistema?
«È scandaloso come la realtà dei fatti possa venire ribaltata in sede di giudizio. E un giudice mi ha pure bollato come spione».
È quello che in molti pensano di voi investigatori privati.
«Siamo solo ricercatori della verità. E, in molti casi, alla verità arriviamo ben prima di altri».
A cosa si riferisce?
«Pensi al duello tra Fbi e Apple per decrittare il cellulare del fanatico di San Bernardino. Beh, noi la tecnologia che ha impiegato la società israeliana Cellebrite per aprire il telefono della discordia la usiamo da almeno due anni e mezzo, come consulenti per le Procure».
Vuol dire che da noi telefoni e pc si violano senza fare troppo rumore?
«Attenzione: si può ricorrere a mezzi del genere solo con un mandato delle forze dell’ordine. O su richiesta del datore di lavoro nel caso di un cellulare aziendale, a patto che sia stato restituito. La legge ci tutela, non dobbiamo preoccuparci. Il problema, semmai, sorge quando normali cittadini entrano in possesso di strumenti invasivi che non hanno nemmeno polizia e carabinieri. Noi lo vediamo quasi ogni giorno, e non ci meravigliamo quando si leggono certe storie sui giornali…».
Storie di stalking che degenera in omicidio, anzi femminicidio. Come nel caso della povera Sara alla periferia di Roma.
«Oggi chiunque può tenere sott’occhio una persona, per 24 ore al giorno. Anche con il consenso apparente dell’interessato. Basta entrare in uno spy shop, o andare su internet, per procurarsi app e strumenti per il controllo a distanza. Di per sé è tutto legale, poi dipende dall’uso che ognuno ne fa. Tra la gente manca un’alfabetizzazione tecnologica di base».
Una sorta di «abc» per non farsi spiare?
«Basterebbe non condividere mai le password personali con nessuno, leggere bene le clausole che si sottoscrivono quando ci si iscrive a un servizio on line, o imparare a riconoscere se nel proprio telefono è stata installata un’app-spia e bloccarla. Non immagina quante ragazze ricevono in regalo dal proprio fidanzato un cellulare già configurato per essere seguito ovunque».
Una trappola mascherata da gesto d’amore.
«Invece è un reato. Non riguarda solo gli uomini, abbiamo smascherato anche una signora che ha reso la vita impossibile all’amante per un anno e mezzo, ed è scattata la denuncia. Chissà quante volte diciamo di no a fidanzati che vengono da noi con lo scopo di rubare l’identità digitale della persona che gli sta affianco».
Anche gli «spioni» hanno un’etica. Sherlock Holmes ne sarebbe fiero.
«La deontologia viene prima di tutto, mio padre diceva di non accettare mai casi ambigui, al di là di quello che ti possono offrire in cambio».
È il primo comandamento in molti altri campi, del resto.
«È la prima regoletta che vorrei insegnare agli aspiranti detective della Ponzi Academy, il prossimo progetto in cantiere, perché in Italia c’è una scuola per qualsiasi cosa tranne che per gli investigatori. Intanto cerco di trasmettere questa passione ai miei figli Federico e Francesco, 28 e 20 anni, che scalpitano per aggiungere nuove pagine all’album di famiglia».
13 giugno 2016 – IlGiornale.it – A cura di Giacomo Susca
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